Decrescita e visione di genere: la politica della prospettiva di sussistenza
[Rassegna stampa] Scritto di Veronika Bennholdt-Thomsen dal sito Comune-Info .
Tra gli interventi più apprezzati e discussi alla Conferenza internazionale sulla decrescita 2012 di Venezia, quello di Veronika Bennholdt-Thomsen, etnologa e sociologa femminista, ha intrecciato i temi della decrescita con una prospettiva di genere.
I principi di una politica della prospettiva di sussistenza
1. Politica di sussistenza è una politica del quotidiano, praticata dal «basso», dall’individuo attivo e consapevole delle proprie responsabilità e non dall’«alto», da parte di un’autorità superiore.
2. Politica di sussistenza è una politica del necessario, dell’immanenza anziché della trascendenza.
3. La politica per la sussistenza si orienta al concreto, al materiale, al corporeo, al sensoriale e si indirizza contro il denaro e l’anonimia della merce.
4.Orientamento alla sussistenza è una politica per la ricostruzione della comunità.
Introduzione. La politica della prospettiva di sussistenza: di cosa si tratta?
Viviamo in un periodo di trasformazioni radicali. Coloro che vedono in esse una crisi della civiltà sono sempre più numerosi. Con ciò si intende che tutte le varie «crisi»: la crisi climatica e quella ambientale, ovvero le cosiddette catastrofi naturali, la crisi finanziaria e quella economica, la crisi alimentare – che in realtà è una «crisi» dei prezzi dei prodotti alimentari – e infine la catastrofe atomica – eufemisticamente definita come crisi dell’energia atomica – confluiscono in un’unica crisi, vale a dire la crisi dei valori e della cultura, ormai diffusa in tutto il mondo, basata sulla fede nella crescita economica che va perseguita mettendo a repentaglio i singoli, le nazioni e infine l’intera umanità. Il consumo di massa è divenuto il pilastro della crescita del profitto, l’aspirazione alla crescita del profitto a sua volta alimenta il consumismo e insieme sfociano nella distruzione dell’umanità e nel saccheggio della natura. Ciò che legittima il nesso tra la crescita del profitto e la propensione ai consumi è il «vantaggio individuale», o come sin dai tempi di Adam Smith è stata eufemisticamente definita l’avidità, «l’interesse». La sua ben nota tesi centrale è assurta a principio fondamentale dell’economia. Perseguendo il proprio vantaggio ciascuno può contribuire più efficacemente al benessere della nazione che non dedicandosi espressamente al benessere collettivo. La politica dello sviluppo ha diffuso questa fede in tutto il mondo, come fosse una religione. Nella seconda metà del ventesimo secolo l’eresia era il «sottosviluppo».
Nel ventunesimo questa ortodossia si è definitivamente imposta e si è completata la Conquista. La globalizzazione dei mercati in un unico mercato mondiale ha trionfato. In nome del libero mercato mondiale milioni di contadine e di contadini vengono derubati della propria terra, vale a dire della base di sostentamento, altri sono privati delle proprie sementi e migliaia sono spinti al suicidio a causa dell’indebitamento per le sementi chimiche.
I profughi vengono respinti verso altri paesi, economicamente più fortunati. A migliaia muoiono durante la fuga. Le grandi imprese nel campo dell’energia non temono di impiegare la tecnologia atomica che minaccia ogni forma di vita, mentre i governi si rendono loro complici per raggiungere la presunta crescita economica. L’economia stessa è diventata guerra, il denaro arma. Il confine con la violenza bellica sanguinaria è fluido. Noi, che apparteniamo alla società globalizzata della massimizzazione, ci troviamo al bivio. Accettiamo che questa civiltà distrugga il mondo oppure no? Si tratta di una questione di vita o di morte, di qualcosa di concreto, fisico e nel contempo di attinente ai valori, alla fede e all’etica sottesi a questa dinamica. È necessario riconoscere che la visione del mondo della «società della crescita» segue l’ordine simbolico della morte. Non abbiamo bisogno soltanto di un nuovo ordinamento economico bensì, fondamentalmente, di un nuovo contratto sociale basato su nuovi valori.
È essenziale un nuovo contratto sociale
Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale che si fondi sulla valorizzazione delle relazioni tra i viventi e non sulla distruzione dell’umanità e sul saccheggio della natura finalizzato alla massimizzazione del profitto e alla crescita dei consumi. Abbiamo bisogno di un contratto sociale fondato su un sistema di valori che riconosca la fertilità naturale e vivente, in base alla quale i bambini hanno origine dalle donne, e non dalla provetta di laboratorio, e il cibo dalla terra, e non dalla macchina. Noi abbiamo bisogno di un contratto sociale che superi il produttivismo, teso all’incremento delle merci e del profitto, e sia sostituito dalla cooperazione con le forze naturali viventi. Abbiamo bisogno di un contratto sociale che si ispiri ai valori della cura materna, affinché le generazioni future crescano rettamente e i malati e gli anziani possano vivere e morire con dignità.
Tutti questi aspetti di un nuovo orientamento rappresentano anche i valori centrali nelle società matriarcali. Nella nostra società patriarcale, al contrario, incontrano un’accanita opposizione, e quando vengono identificati come valori materni e matriarcali, sono spesso oggetto di contestazione anche da parte delle donne. Noi femministe conosciamo la critica difensiva che ci viene rivolta con lo scopo di sminuire, che è di biologismo e di essenzialismo. Ma ogni essere umano, uomo o donna, può essere premuroso in modo materno.
Ciò non ha niente a che fare con la biologia. Al contrario, il sentimento materno in tutte le culture è il simbolo del sostegno alla vita, e l’ordine simbolico della madre e della maternità rappresenta l’ordine naturale del divenire e del trascorrere. Lo si ritrova in tutte le culture, a meno che non siano essenzialmente guerriere, come la nostra o quella estremamente oppressiva nei confronti delle donne dei Baruya in Nuova Guinea, con la sua economia primitiva di caccia e raccolta. Fra i Baruya la forza socialmente riconosciuta come decisiva è quella del portare la morte. Ma perfino qui, i portatori di morte si rappresentano come «creatori», come coloro che per mezzo del seme maschile creano la fertilità del campo e che nei riti di iniziazione omosessuali destano i propri figli alla vita.
Anche noi conosciamo la messa in scena della fertilità da parte dell’industria chimica con il suo monopolio sulle sementi, i suoi organismi geneticamente modificati (Ogm), dotati di geni-Terminator incorporati. Esattamente questo è l’autentico biologismo, illogos crea presumibilmente la vita, dopo averla precedentemente strappata alla physis e averla quasi uccisa. Viene separata e divisa, soffocata e poi creata artificialmente («man made»). Naturalmente, si tratta di una presunta nuova creazione. Proprio questo è l’essenzialismo, essenzialismo patriarcale, e precisamente quello che attribuisce al distruttore l’autentica ed essenziale forza creatrice. Claudia von Werlhof la definisce una pratica alchemica. Una civiltà della post-crescita ha bisogno di un modo di pensare decisamente nuovo. Nello specifico, occorre superare il concetto di Natura proprio delle scienze naturali, e tendere a una comprensione della natura come riconoscimento della corporeità, della mater-ia, della concreta e sensoriale materialità, riconoscimento di quello che ci è stato dato e del modo in cui la vita stessa ci è stata data, come dono. La teoria della gift economy di Geneviève Vaughan si basa su questo riconoscimento (G. Vaughan, Per-donare. Una critica femminista dello scambio, Meltemi).
La prospettiva della sussistenza e la politica della sussistenza
Da anni, decenni, noi che lavoriamo alla teoria della sussistenza – e nel frattempo siamo diventate numerose, tutte femministe orientate in senso matriarcale – abbiamo criticato duramente la perversione, il rovesciamento di vita e morte da parte dell’economia della crescita e della sua politica di sviluppo globalizzata. Ma non c’è nulla di più complicato del parlare contro dogmi consolidati. Lo so per amara esperienza. Ma proprio di questo si tratta: analizzare criticamene i dogmi indiscussi e cercare i modi in cui, ai nostri giorni, nel ventesimo e ventunesimo secolo, possano funzionare diversamente, in modo assolutamente pratico e pragmatico.
«Sussistenza», il concetto e il suo significato
Sussistenza è ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, ciò con cui la vita «prosegue», come asserì Gertrud Mies, la madre di Maria Mies. Lei, contadina di lingua tedesca dell’Eifel, probabilmente non conosceva ancora l’espressione «sussistenza», prima che sua figlia si dedicasse al tema, a differenza delle contadine di lingua inglese in India presso le quali Maria ha compiuto le sue ricerche, o dei contadini di lingua spagnola in Messico, dove ho svolto le mie, o di quelli francofoni in Africa Occidentale o in Svizzera. In latino «subsistere» ha il significato di «ciò da cui deriva la propria esistenza, la propria essenza». Con ciò si fa riferimento al processo che esiste e continua grazie a una certa forza vitale. Gli esseri umani vengono ricompresi come parte della totalità di questo processo. La nostra definizione sottolinea la partecipazione attiva da parte degli umani. «Produzione di sussistenza» – o produzione vitale – comprende tutto il lavoro svolto per la produzione e la conservazione della vita immediata, che ha questo preciso scopo. In questo senso il concetto di produzione di sussistenza si contrappone a quello di produzione di merce e valore aggiunto. Nella produzione di sussistenza l’obiettivo è la «Vita». Nella produzione di merci l’obiettivo è il denaro, che «produce» sempre più denaro oppure l’accumulazione del capitale. La vita si presenta in un certo senso soltanto come effetto «collaterale». Orientamento alla sussistenza, è lo sguardo al necessario, non soltanto per noi stessi, ma anche per gli altri, l’esatto contrario dell’interesse personale. «Vivere e lasciar vivere», dice la gente nella Warburger Börde, nella Westfalia orientale. E questo significa anche vivere in modo tale che non lo si faccia a spese della sussistenza degli altri. La mia sussistenza comprende sempre anche la sussistenza degli altri. Questa morale della sussistenza, che E. P. Thompson ha individuato anche nel comportamento della classe operaia inglese del tardo diciottesimo e dell’inizio del diciannovesimo secolo, e che ha definito moral economy, è più importante che mai in un mondo globalizzato: vivere in modo tale che io con il mio consumo non sottragga niente ad alcuno, in alcun luogo. Think globally, act locally!
Orientamento alla sussistenza significa liberazione dalla fissazione sul «di più e sempre di più», significa riconoscere ciò che è superfluo, quando interviene la sazietà e quando comincia l’avidità, che divora soltanto tempo e voglia di vivere. Sussistenza significa non fidarsi più del denaro, ma delle forze viventi, anche delle proprie. Sussistenza significa mettere alla prova le proprie capacità, significa fare da sé e, d’altro canto, significa consolidare insieme agli altri le nostre basi di esistenza. Non si può mangiare il denaro, dal denaro non si costruiscono case, il denaro non sostituisce alcuna assistenza e alcuna comunità. Sussistenza non significa autarchia, come è definita nella nostra società frantumata e individualizzata, per sminuirne il significato. Perché nella società della concorrenza inserita nell’economia della crescita, in cui predomina la cultura dell’homo homini lupus (Thomas Hobbes 1651), risulta difficile connettere la sovranità indipendente della persona e la cooperazione comunitaria. Nel nuovo concetto della sovranità alimentare, invece, esse lo sono. Ciò non ha niente a che vedere con l’isolazionismo autarchico.
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Titolo originale “Il mondo è di tutti, dicono le donne, cambiamolo” di Veronika Bennholdt-Thomsen | 23 settembre 2012