Bosco Verdito. Appunti di paesaggio: cappella di San Giuseppe, Paduli – di Giovanni Rossi
Andiamo da Lorenzo. Stefano ingoia le curve e io come al solito un po’ parlo e un po’ penso ai fatti miei. Scavalchiamo Paduli e scendiamo a valle, in un posto solitario che si chiama Verdito dove tira un vento freddo, forse l’ultimo dell’inverno. Arriviamo in mezzo a un caseggiato basso con dei capannoni a sinistra, ci scivoliamo di lato, lungo una discesa ancora sporca di fango, fino alla cappella di San Giuseppe. A destra ci sono attaccati dei ruderi silenziosi, una specie di braccio ingessato dal tempo, e a sinistra c’è una baita bassa e larga tutta di pietra costruita su dei sassi che sembrano ippopotami. Lorenzo arriva di soppiatto e ci saluta orgoglioso del suo piccolo medioevo. Rimarchiamo ogni pietra della cappella di San Giuseppe e poi ci entriamo. Lorenzo dice che è meglio di notte, ci sono le luci; a me va bene così, domani è sabato, fuori c’è vento, e il pomeriggio va a calare illanguidendo ogni sensazione. La cappella è stata appena sistemata da un restauro, di quelli rammemoranti, che si fanno in punta di piedi, dalle fondamenta fino alla campana del 1600. Giriamo intorno al rudere, fino alla stalla, ci lasciamo a destra un capanno vecchio west con quattro maiali, e ne approfitto, faccio un filmatino alle bambine, coi musi dei maiali che si abbaruffano per un ciuffo d’erba che infilo nella rete. Siamo sull’orlo della valle, sulla parte più alta degli uliveti. - L’olio buono è una gara contro il tempo, deve andare al frantoio di corsa, poi le piante le lascio nell’erba e quando le poto macino tutto e lascio anche quei resti… – mentre Lorenzo parla penso a quanto sarebbe bello un tocco di campana, ora, nella valle, ci sentirebbero a Paduli e a Pago Veiano, a San Marco dei Cavoti, a San Giorgio La Molara, chissà addirittura in Puglia, sul Gargano. Entriamo nella casa bassa di pietra che è stata costruita addosso a dei macigni. La mamma di Lorenzo ci offre i biscotti alle mandorle appena fatti e un caffè. Siamo seduti a un tavolo di legno lungo e magro, alle nostre spalle c’è un camino con una grande bocca buia. Nel frattempo guardiamo fuori, oltre il porticato. La grossa siepe di lauro ha preso uno specie di fungo, una patologia che la sta facendo arrugginire. Lorenzo e Stefano ne parlano come se fosse una vecchia zia di famiglia, citano rimedi, terapie, addirittura usciamo e ci giriamo attorno. Li sento dire di potature drastiche, di trattamenti, di quanto era rigogliosa fino a qualche tempo prima. Costeggiamo il campo di favini mentre sotto il capannone due meccanici fanno manutenzione alla trasmissione della trebbiatrice. Lorenzo farà ruggire quel mostro d’estate e qualche volta si metterà proprio lui alla guida, – Oggi faccio io -, dirà all’operaio allontanandolo con un braccio. Abbiamo ancora poco tempo, giusto quello necessario per prendere l’olio, di due colori ma della stessa terra, degli stessi ulivi che si aprono a valle ai lati della cappella di San Giuseppe. Gli ulivi coi piedi nei ciuffi d’erba. Quelli che guardano il fiume dall’alto. A questa valle bisogna essere abituati. Come Lorenzo. E come Lorenzo bisogna avere il gusto di raccontare ogni pietra e ogni pianta. Senza alcuna fretta e senza dover inventare nulla, stando semplicemente affacciati.