L’Irlanda, in direzione ostinata e contraria. Prima parte.
[di Angelo Imbriani]
“Be nice or leave!”
“Signore, benedici chi non mi fa perdere tempo!” Mentre attendo che il titolare del negozio concluda la sua transazione con il signore che mi precede, noto la scritta alle sue spalle. Passano i minuti e attendo pazientemente il mio turno. Ecco, l’altro avventore ha avuto la merce che cercava, ha anche pagato, ma la discussione tra lui e il negoziante, che pare verta su dei loro comuni conoscenti, non accenna a concludersi. Spero che l’esercente si ricordi quanto prima di quel cartello affisso in bella posta nel suo negozio, a guisa di monito per chi entra e quasi di manifesto programmatico del suo “stile commerciale”. Ma non è così, purtroppo. Provo ad avanzare di un passo. Niente. Del resto, quando sono entrato, nessuno dei due ha risposto al mio “buongiorno” ed ora continuo evidentemente ad essere invisibile. In altre circostanze la cosa non mi dispiacerebbe affatto, ma qui dentro oltretutto fa anche piuttosto caldo. Ora i due sono passati a dibattere le scelte lavorative ed esistenziali, nonché le note caratteriali specifiche dei figli di quei comuni conoscenti di cui stavano già parlando. Faccio un altro passo avanti. Forse lo hanno notato. Si salutano, finalmente. Avanzo. Il commerciante mi guarda, con espressione interrogativa e vagamente infastidita; non dice una parola. “Mi occorrerebbe una pila come questa, per favore”. Prende la batteria che ho in mano, la valuta, si china sotto il bancone, cerca per qualche secondo e infine me ne mostra una simile. Sempre senza proferire parola. “Ok”, dico. “Quant’è?”. “Cinquanta centesimi”. Gli porgo la moneta e saluto. Non risponde. Stavo quasi per mormorare un “grazie, mille” perché dal suo atteggiamento sembrava che stesse lì a farmi un favore e non che si trattasse di un normale scambio commerciale del quale, al limite, era lui a doversi rallegrare, visto che io avrei anche potuto scegliere un’altra bottega.
Appena in strada, ecco un automobilista che suona a distesa il clacson. Supera un’altra vettura e si sbraccia contro il conducente di quest’ultima che, evidentemente, non rispettava il suo personalissimo limite minimo di velocità. Dopo un attimo, una scena analoga, con altre due automobili. Ancora il suono violento del clacson da una, ma stavolta è inteso a bloccare sul posto quell’altra che accennava a immettersi sulla strada principale, rischiando di far perdere al conducente della prima i suoi preziosissimi secondi.
Sospiro, già rassegnato, e penso all’Irlanda da cui ho appena fatto ritorno.
In Irlanda (ma anche in Inghilterra, in Scozia e di sicuro in cento altri paesi), se entri in un pub e chiedi una pinta, dimenticando di dire per favore (da noi spesso la formula di cortesia si omette: chiedere “un caffè!”, si ritiene che basti e avanzi), il barista ti guarda un po’ interdetto, non irritato, semmai lievemente spaventato, e ti risponde “Certo! Subito!” E’ che in quel modo la richiesta gli pare quasi un ordine; o magari pensa che tu abbia una gran fretta…
Anche in Irlanda, in molti esercizi pubblici, c’è un cartello, come nel negozio di prima, ma sopra vi è scritto: “Be nice or leave!” Sii gentile oppure va via! E’ questo cartello, e tutto lo stile di vita a cui allude, ancor più della lingua straniera, della pioggia d’estate, dei paesaggi, del cibo, che ti fa sentire lontano dall’Italia. Lontano molto più di quelle mille miglia che separano geograficamente i due paesi. Lontano, ma positivamente, felicemente lontano, anche se solo per il tempo di un viaggio, di una vacanza. Perché in Italia tanti, tantissimi, forse la grande maggioranza non danno più valore alla gentilezza. Anzi, molti sembrano addirittura pensare che essere gentili sia un segno di debolezza o forse una perdita di tempo o una formalità superflua. Milioni di italiani non sanno più cosa sia la cortesia, come renda più piacevole la vita, più facili i rapporti umani, anche nel caso che fosse solo un abito esteriore. Milioni di italiani si comportano in modo arrogante e prepotente, noncuranti del prossimo, e probabilmente molti di loro non sono neanche così per carattere; piuttosto, si sentono obbligati ad atteggiarsi in simil modo, temendo di perdere qualche punto nella competizione sociale selvaggia che coinvolge tutti o quasi, nelle piccole cose quotidiane e in quelle più importanti. Chi gira un po’ per l’Europa sa che su questo non è affatto vero che tutto il mondo è paese. L’Italia, che un tempo dicono sia stata terra gentile, ha maturato ormai una sua negativa peculiarità.
E non è certo questo l’unico motivo per fuggire lontano dal Bel Paese, almeno per qualche settimana, non è l’unica ragione che fa sentire l’esigenza di disintossicarsi dall’italianità. Caso mai qualcuno ci rispondesse che le considerazioni di prima sono solo inezie, caso mai qualcuno obiettasse, con un sorrisetto, che sono anche cose importanti, “ma fino a un certo punto…” passiamo allora dai minimi ai massimi sistemi, dalle minime alle massime questioni della vita civile di un popolo. Magari un giorno riusciremo perfino a cogliere il legame fra i due livelli…
A spingerci lontano dall’Italia c’è, al di sopra di tutto, lo sdegno, quasi disperato, che suscita un paese che assiste indifferente o senza alcuna consapevolezza allo stupro della Costituzione repubblicana. Quella Costituzione che era l’unico vero e nobile fattore di una identità nazionale rimasta sempre incerta e precaria, ammantata sempre di vuota retorica e luoghi comuni, manipolata in modo criminale dal fascismo, boicottata dal Vaticano e riscattata soltanto dalla Resistenza. Quella Costituzione che sola ci rendeva orgogliosi della cittadinanza italiana. Quella Costituzione che doveva fondare un paese nuovo e civile, che forse non è mai nato.
E allora viene voglia di andare lontano da un Bel Paese che ama il 25 luglio più del 25 aprile, il Gattopardo più di Garibaldi, le riforme che non riformano nulla, i cambiamenti di facciata.
Lontano da chi si vende per 30 o per 30000 denari, da chi vende la coscienza e l’anima nel bunga bunga quotidiano e poi depreca le Ruby che almeno vendono soltanto il corpo. Lontano da chi abusa ordinariamente del suo piccolo o grande potere e non troverà mai una Boccassini sulla sua strada. Lontano da chi usa privatisticamente i soldi pubblici nell’assordante silenzio della Corte dei Conti, oltre che in quello delle coscienze. Lontano da un paese sessuofobico perché sessuomane, e sessuomane perché sessuofobico, che tutto legge nell’ottica del sesso, per giustificare, invidiare e ammirare o per deprecare e condannare, ma sempre inquinando ogni criterio di giudizio con lo spirito greve della commedia all’italiana. Lontano dal paese dove le morali familistiche hanno sempre soffocato ogni barlume di etica pubblica. Lontano dal paese dove tutti urlano per coprire il vuoto delle loro parole, per sopraffare la voce dell’altro. Lontano dal paese dove ognuno si crede furbo e questa grande folla di furbi produce una immane stupidità civile e collettiva.
In Irlanda, in molti esercizi pubblici, c’è un cartello con su scritto: “Be nice or leave!”. Ecco, milioni di italiani dovrebbero allora andare via. Ma non lo faranno di certo. E allora vado via io, almeno per un po’. Chi vuole venire con me in Irlanda può accomodarsi: purché sia gentile!
Il Donegal e… gli italiani in vacanza
I suoi abitanti, con quella vocazione all’autocommiserazione che ci è ormai ben nota, definiscono il Donegal la forgotten county, la contea dimenticata. E non hanno poi torto. La natura, innanzitutto, non è stata certo generosa con questa regione che ha la stessa asprezza di territorio del vicino Mayo e dello stesso Connemara – un paesaggio di torbiere, acquitrini e sassi – ma con un clima ancora più inclemente, sferzata come è dai freddi venti atlantici che spesso si portano dietro acqua a valanghe.
Ciò che ha segnato definitivamente il destino della contea è però avvenuto in tempi recenti, al momento della Partition of Ireland del 1920. Londra decise allora la divisione dell’isola, fra la parte settentrionale, storicamente chiamata Ulster, quella ove secoli prima si era realizzata la colonizzazione protestante e che sarebbe rimasta sotto la sovranità inglese, e la restante parte che avrebbe formato l’EIRE, la libera repubblica d’Irlanda. Ora, il Donegal storicamente era indubbiamente parte dell’Ulster. Geograficamente il Donegal è addirittura la regione più settentrionale dell’Isola. Pertanto, il Donegal prima di ogni altra provincia avrebbe dovuto rimanere sotto la sovranità di sua maestà britannica e far parte dell’Irlanda del Nord. E invece gli inglesi e sua maestà britannica si “dimenticarono” del Donegal che fu assegnato quindi all’EIRE. Soluzione singolare visto che solo una stretta striscia di terra collegava e collega questa contea alle altre della Repubblica. Soluzione catastrofica per il Donegal che si vedeva tagliato fuori dalle sue tradizionali vie di comunicazione e di commercio, che si vedeva privato del suo naturale sbocco commerciale che era la città di Derry, con il suo porto. E la Repubblica, peraltro, non tutelò in alcun modo questa sua disgraziata “appendice” settentrionale, anzi, secondo la gente del posto anche Dublino si è “dimenticata” del Donegal!
Del Donegal si dimenticano anche i turisti, a dispetto della selvaggia e incontaminata bellezza dei luoghi: se il Mayo è molto, ma molto meno visitato del Connemara, il Donegal è molto meno visitato del Mayo! Sono tanti i turisti in Irlanda ma ben pochi si spingono fin quassù. E proprio per questo ci siamo venuti noi!
Nel Donegal ho trascorso sei magnifici giorni, fra le scogliere vertiginose delle Sleave League, i capi e i promontori tempestosi della costa nord, come Malin Head e Horn Head (ebbene sì, in Irlanda c’è pure capo Horn), la cittadina omonima di Donegal con le sue memorie storiche, i rovesci d’acqua, le raffiche di vento e certe inattese schiarite che proprio ti spingono a inneggiare al Signore… ora restano le foto e gli appunti di viaggio, ma questi temo che siano – per dirla con il Gulliver di Francesco Guccini – soltanto dei “vuoti gusci di parole”.
Che solo questo sarebbe rimasto delle sensazioni, delle emozioni e dei pensieri del viaggio nel Donegal l’ho capito assai presto, a Derry, mentre facevo colazione…
Ecco, il proprietario sta finalmente portando il mio Irish breakfast, quando vedo entrare una coppia di mezza età, lei con un braccio fratturato al collo, un incedere pesante; lui pelato, abbronzato e un tantino più atletico. Il landlord li saluta, si ferma con il mio piatto tra le mani, li fa accomodare al mio tavolo, fa un gesto come se volesse presentarci e, lasciando ondeggiare pericolosamente il piatto con la mia preziosa colazione, esclama: “Siete tutti italiani”. Che ci vuoi fare, penso tra me: sono disgrazie!
E così per tre quarti d’ora sarò impegnato in una “amabile” conversazione con i due connazionali. Devo aver recitato bene la parte, perché alla fine addirittura mi ringrazieranno caldamente per la compagnia e le preziose informazioni. Di compagnia non so, ma di certo di qualche informazione avevano un gran bisogno, anche se dubito che la mia opera pedagogica abbia potuto smuovere abitudini così saldamente sedimentate. Dunque, sono di Grosseto; il braccio lei se lo è rotto prima di partire e non certo arrampicandosi per qualche pendio irlandese. Se lo è rotto, banalmente, scivolando in casa sua. L’altra sera erano a Drogheda che è appena a nord di Dublino, molto lontano da qui. Nella giornata di ieri sostengono di aver visto le Glens of Antrim e la Giant Causeway, ovviamente senza fare escursioni a piedi. Sono arrivati a Derry alle 9 di sera e si sono infilati nel primo bed and breakfast. Il mio, purtroppo. La stanza è piccolissima, mi spiega la signora, abbassando il tono della voce fino a un sussurro, e c’è un imprecisato e imprecisabile rumore di sottofondo che li ha disturbati per tutta la notte.
Mi chiede se conosco la zona, che cosa vale la pena di vedere. Dico che vengo dal Donegal. Come è, mi chiedono, vale la pena di passarci? Noi siamo diretti a Sligo… Potremmo fermarci anche a Donegal, però, precisa il marito. Dipende, dico: se piacciono i paesaggi selvaggi… La signora annuisce entusiasta. Accenno allora a Malin Head, poi a Horn Head, infine alle Slieve league. Guarda caso c’è una cartina dell’Ulster alla parete. Si alzano entrambi, marito e moglie, vanno a rintracciare i luoghi sulla carta, mentre glieli descrivo sommariamente. Il marito parla poco, ma segue con attenzione. Però, dico, bisogna camminare un po’. Ah ecco, fa la donna raggelata, perché arrivi a questi parcheggi, ma poi devi camminare per questi sentieri, in mezzo a queste pecore… eh sì, faccio io e infierisco sadicamente, ma in macchina uno si perde il meglio, anzi si perde proprio tutto. Comunque insistono, sia pure con meno entusiasmo, e mi chiedono: e lei ce l’ha fatta a vedere tutto in un giorno, i due capi, come si chiamano? Head qualcosa, e poi Donegal, la città, le scogliere?
Un giorno? – sgrano gli occhi: ci sono stato sei giorni! Ah, ma noi siamo di corsa… E questo parco, fa la signora, cercando il luogo sulla cartina, senza naturalmente trovarlo… dicono che c’è un bel castello… Sì, il Glenveagh National Park, sono stato anche lì, ma solo, penso tra me, perché dovevo ingannare il tempo: la landlady di Horn Head, dove ero diretto, mi aveva ingiunto di presentarmi esattamente fra le 17 e le 18, come se il suo bed and breakfast fosse lo studio di un avvocato! C’è un bel un paesaggio di laghi, torbiere, macchie di querce e betulle, ma purtroppo c’è anche un orrido castello finto-gotico che poi è la grande attrazione turistica. Dal parcheggio al castello ci sono quattro chilometri: i britannici e gli altri europei (spagnoli compresi) li percorrono a piedi, sul sentiero che costeggia il lago, ed eventualmente proseguono anche oltre il castello, fino alle cascate. Gli italiani si servono regolarmente del servizio navetta, arrivano al castello, fanno la foto ricordo e, constatando l’assenza di qualsiasi bar o punto ristoro, riprendono la navetta per tornare alla loro adorata automobile… e difatti, al banco che fungeva da biglietteria per la navetta e da centro informazioni, ho subito sentito risuonare la lingua di Dante. Per la verità, dato l’accento, si dovrebbe parlare della lingua di Alberto Sordi. Mentre i romani facevano i biglietti per la navetta, mi sono avvicinato all’altro signore dietro il banco, per chiedere una mappa del parco; e quello ha provato a indovinare la mia nazionalità: “La vuole in italiano o in francese?” “In francese”, ho risposto senza alcuna esitazione e mi sono avviato verso il sentiero, aggirando i connazionali.
Ecco, rispondo ora a questi altri due, lasciate perdere Horn Head e Malin Head, lasciate perdere le scogliere, e andate al parco, c’è quel bel castello e una comoda navetta…
Rathlin Island
“Absolutely lovely!”, mi fa Maggie, la landlady, nel salutarmi, quando le dico che sono diretto all’isola di Rathlin, la più settentrionale dell’Irlanda; l’unica abitata fra le isolette dell’Irlanda del Nord. Abitata per modo di dire: solo un centinaio di residenti!
Appena sbarcati ci si trova di fronte una grande casa signorile, bianca, solenne. Non può che essere questa la Manor House, il mio alloggio, dato che veniva descritto come l’edificio più imponente del villaggio. Tutte le camere dell’albergo danno sul porticciolo e sulla piccola baia. Church bay viene chiamata, perché per tanto tempo la storia dell’isola si è ritenuto incominciasse con la costruzione di un monastero nel 580 e.v., seguito dalla fondazione della prima chiesa, mezzo secolo dopo. In realtà, le recentissime ricerche archeologiche e i reperti trovati hanno stabilito che l’isola è abitata fin dal 6000 a.e.v.! Del primitivo monastero non resta nulla, mentre di chiese ora ce ne sono due: la più antica, la St. Thomas Church, è della Chiesa d’Irlanda, ossia anglicana, ed è costruita esattamente sul sito del monastero; si trova all’estremità della baia, poco dopo la Manor House. In seguito, però, anche il papa ha voluto segnare la sua presenza nell’isola, con la chiesetta dell’Immacolata Concezione.
L’edificio più importante di tutti è comunque proprio la Manor House, che risale al 1756 ed è stata per lungo tempo la residenza del landlord, ossia del signore dell’isola. Anche gli edifici nelle adiacenze, che condividono lo stile e il colore, erano nelle disponibilità del landlord e servivano da appartamenti per i dipendenti e per la servitù, da stalle o magazzini. In quello dove c’erano i magazzini si provò ad allestire, tempo fa, un ostello della gioventù, ma l’impresa non ebbe successo: Rathlin non è l’isola di Wight! Proseguendo lungo la baia, lasciandosi alle apalle la Manor House e le sue dipendences si trova un negozietto, allestito in una casa semidiroccata, che vende un po’ di pescato locale: sgombri, salmone, astici, aragoste, granchi. Uno squisito patè di granchio oppure la polpa cruda e nature dello stesso crostaceo, si può acquistare in delle ciotoline e mangiare sul posto. Segue una breve fila di cottage, quattro o cinque in tutto. Quindi, un po’ arretrato rispetto alla stradina che costeggia la baia, il grande Mc Cuaig’s bar, unico pub del luogo, dove si può anche mangiare del cibo semplice, tipo fish and chips, burger and chips, chicken…and chips! Noto con sollievo che è almeno provvisto della grande birra Smithwick’s! Infine un negozietto di articoli locali, che non assomiglia proprio ai consueti negozi di souvenir, e dall’altro lato, sul mare, una casetta di pietra, un tempo postazione della guardia costiera, che ora ospita il bel centro di documentazione sulla storia e il paesaggio dell’isola. Ecco, è proprio tutto: in fatto di insediamenti umani, se si esclude qualche altro raro cottage nei dintorni, a Rathlin non c’è altro! Il resto dell’isola è abitato soltanto da tantissimi uccelli, da lepri, pecore, qualche mucca e parecchie foche che sugli scogli si crogiolano al sole – quando c’è!
Ci sono paesini minuscoli, che contano poche centinaia di abitanti, ma d’estate si riempiono di orde turistiche, sicché la loro popolazione aumenta di dieci, cinquanta, cento volte. E nonostante tutte le strutture turistiche e i servizi, l’abitato resta tragicamente sottodimensionato, inadeguato ad accogliere tante persone. Il paradosso, ma io parlerei proprio di perversione, è che più un luogo è intasato di gente (e di automobili) più viene considerato come un luogo “in”, un posto dove al ritorno dalle vacanze ci si può vantare di esser stati, raccontando agli amici: “non puoi immaginare quanta gente che c’era!” Ecco, Rathlin è precisamente l’opposto: se normalmente conta 100 abitanti, nell’alta stagione estiva può arrivare al massimo a raddoppiarli. Si può pensare che ciò corrisponda a una logica di mercato: poca domanda e dunque poca offerta. Nei luoghi del turismo di massa, invece, grande domanda grande offerta. Ma spesso è il contrario: è l’offerta che modella la domanda. I turisti vanno nei luoghi dove si fa di tutto per attirarli. In fondo, si muovono come le greggi nella transumanza, ma a differenza di queste credono di essere loro a scegliere direzione e meta! E non è detto, poi, che una offerta di strutture turistiche ridotta o ridottissima significhi scarso spirito imprenditoriale e si debba leggere come un’occasione perduta di sviluppo. I luoghi come Rathlin, la pace ed il benessere che ci offrono, ci aiutano a liberarci dall’ideologia della crescita, dall’equazione crescita=benessere.
L’isola ha tre fari, uno per ciascuna delle sue tre punte, tre splendide occasioni di trekking. Tre scenari differenti, specie riguardo ai suoni: alla Southlight, il richiamo inquietante delle foche che riecheggia tra le spettrali macerie della “Casa dei contrabbandieri”; alla Westlight, tutt’altro ambiente, con il grido di mille e mille uccelli marini che quasi copre il chiacchierio della gente giunta con la navetta (tanti), con le bici (pochi) o a piedi (praticamente io solo!); dietro la Eastlight, infine, solo il silenzio e la risacca dell’Oceano, che giunge come ovattata. E nella luce del crepuscolo pare quasi di veder passare una grande nave mercantile, ansiosamente attesa dai Lloyd’s e dai mercanti che vi hanno investito, e incrociarsi con un bastimento che invece parte or ora per l’America, con il suo carico di derelitti in cerca di fortuna o di semplice sopravvivenza. E tra l’uno e l’altro battello che sono quelle agili barchette e quegli uomini dagli strani costumi che lo guidano? Ma sì, sono i vichinghi che proprio da Rathlin incominciarono la loro invasione dell’Irlanda!
il Mayo, Parnell e il “boicottaggio”
Eccoci nel Mayo, contea a nord del Connemara, stesso paesaggio aspro, ma molti turisti in meno. Il Mayo è forse il simbolo delle sofferenze di Irlanda. A suo confronto il desolato Connemara è una terra ridente! C’è un vecchio detto fra gli abitanti di questa contea, poche ed eloquenti parole: “The Mayo: oh my God!”
La passeggiata di oggi parte dalla spiaggia di Dooagh, un villaggio fra Keel e il capo Achill, e si snoda per oltre 12 chilometri. La strada presto si inerpica regalando belle vedute della costa. In basso si scorge un grande cottage; è legato ad una storia importante e sarà il caso di rifiatare, sedersi un po’ qui, volgere lo sguardo indietro a contemplare l’oceano e la scogliera e ascoltare questa storia, sotto gli sguardi preoccupati delle pecore e quello vigile dell’ariete…
Dunque, siamo sul finire dell’Ottocento e anche per l’ Irlanda erano ormai “i tempi in cui si incominciava la guerra santa dei pezzenti” e qui i pezzenti erano soprattutto irlandesi e cattolici, contadini senza terra, giacché le Penal laws avevano di fatto escluso i cattolici – o più precisamente i non-anglicani – dalla proprietà delle terre. I proprietari terrieri, contro i quali i contadini cominciavano ad organizzarsi per rivendicare i loro diritti, erano quindi di regola protestanti e molto spesso inglesi. Ma il grande leader delle lotte contadine in Irlanda, l’”apostolo” dei pezzenti, come si usava dire nel linguaggio messianico della politica tardo ottocentesca, fu un ricco proprietario terriero, protestante e addirittura di origini inglesi! Si chiamava Charles Stewart Parnell. Del resto, non sarà certo l’unico protestante a guidare una lotta per i diritti civili che andava a beneficio soprattutto dei cattolici irlandesi. Chi ha visto il bel film Bloody Sunday, o conosce la vicenda, sa già a chi mi riferisco. E così, mentre nello stesso momento la chiesa cattolica d’Irlanda condannava i “tumulti” e gli “agitatori”, che poi erano quasi sempre suoi fedeli, Parnell si comportava da vero cristiano!
Parnell fu eletto ben presto deputato a Westminster, dove c’erano ormai una ottantina di rappresentanti irlandesi che si battevano per l’autonomia legislativa del loro paese, il cosiddetto progetto di Home rule. In una delle prime sedute a cui prese parte, egli rimase colpito dall’interminabile discorso tenuto da un altro deputato irlandese, Joseph Biggar. Biggar, in realtà, stava magistralmente adottando la tattica del filibustering – da noi conosciuto come ostruzionismo parlamentare – fondamentale strumento di lotta e di tutela delle minoranze parlamentari. Si trattava di bloccare un decreto coercitivo ai danni dell’Irlanda e soprattutto di indurre il Parlamento a guardare con più attenzione alla questione irlandese. Biggar, che si stava mostrando un così abile oratore, di mestiere faceva il macellaio ed era un presbiteriano: ancora un protestante alla testa delle battaglie civili irlandesi! Del resto, le penal laws e, in generale, la politica inglese di occupazione dell’Irlanda avevano discriminato non solo i cattolici, ma anche i protestanti cosiddetti “non-conformisti”, ossia tutte quelle chiese e denominazioni che erano al di fuori della chiesa anglicana.
Un paio di anni dopo ci fu nuovamente nelle regioni dell’Ovest una grave carestia: le piogge incessanti distrussero l’avena e fecero marcire le patate nel terreno. Nel semestre tra marzo e settembre piovve per 125 giorni su 183. Di nuovo, come nella Grande Carestia di qualche anno prima, molti contadini non furono più in condizione di pagare l’affitto; di nuovo i landlords incominciarono a cacciarli dalle terre. Ma nel giro di qualche decennio la situazione era molto cambiata, in Irlanda e nel mondo: erano nate le organizzazioni sindacali, le leghe contadine, ci si univa, ci si organizzava, si scioperava, si lottava. Parnell accolse l’invito a partecipare ad una assemblea che doveva tenersi nella città di Westport, qui nel Mayo, per organizzare la reazione, la protesta e la lotta contadina contro i provvedimenti di espulsione. Parnell vi giunse mentre, come al solito, cadeva una pioggia torrenziale. Ma né quel tempo così inclemente, né l’aperta condanna dell’arcivescovo cattolico nei confronti dell’iniziativa, impedirono a tantissimi contadini di accorrere ad ascoltare quel deputato, anglo-irlandese, protestante e landlord lui stesso, che però aveva abbracciato con generosità la loro causa. Lo accolsero grida di “la terra al popolo!”, “l’Irlanda agli Irlandesi!”, “basta con i ladri di terre!”. Il discorso di Parnell convinse ed entusiasmò i contadini. Così proprio la remota contea del Mayo assumeva la leadership delle lotte contadine. La folla era però esasperata ed era tentata dal ricorrere alla violenza contro i landlords. Ma Parnell si ricordava del suo ingresso alla Camera dei Comuni, si ricordava di Biggar, il macellaio presbiteriano e della tattica del filibustering. E si ricordava anche di essere un vero cristiano.
“Che cosa si dovrebbe fare con un affittuario che fa un’offerta per comprare una fattoria da cui il suo vicino è stato sfrattato?” (Una voce: “Sparargli!”). “Ho sentito qualcuno gridare che bisognerebbe sparargli”, continuò Parnell, “ma io voglio ora mostrarvi una via molto migliore, più cristiana, una via più caritatevole, che darà al peccatore perduto un’opportunità di pentirsi”.
Il silenzio più assoluto calò a questo punto sulla grande folla, il capo di ognuno si protese in avanti, come per ascoltare meglio e per non perdere una parola di ciò che quell’uomo straordinario stava per dire. Immaginiamo che Parnell abbia fatto una breve pausa a questo punto, giocando con la viva attesa che le sue parole avevano suscitato nella folla. Ed ecco che, seguendo la descrizione che fece del suo aspetto anni dopo la figlia di Sir Gladstone, il grande statista inglese, ecco che ci pare quasi di vederlo sorridere, con il suo sorriso luminoso, puntare verso la folla i suoi occhi che lanciavano dardi di fuoco e riprendere, finalmente, il suo vibrante discorso: “Quando un uomo si prende una fattoria da cui un altro è stato sfrattato, voi dovete additarlo al lato della strada, quando lo incontrate; voi dovete additarlo mentre sta dinanzi alla cassa del negozio, voi dovete additarlo al mercato e perfino nella casa di Dio, lasciandolo assolutamente solo, isolandolo dal resto dell’umanità come se fosse un lebbroso dei tempi antichi; voi dovete mostrargli in tal modo il vostro disprezzo per il crimine che egli ha commesso”.
Immaginiamo che alcuni, molti, abbiano applaudito entusiasti, conquistati dalla nuova prospettiva di lotta che Parnell mostrava loro. Immaginiamo che altri abbiano applaudito più timidamente, quasi sedotti, ma ancora un po’ perplessi. Immaginiamo che altri ancora abbiano mormorato qualche parola al loro vicino, per esprimere un dubbio, per esorcizzare con una battuta ironica la speranza che sorgeva e la paura che ancora una volta si andasse incontro a una delusione da scontare poi a caro prezzo.
L’efficacia del nuovo metodo di lotta avrebbero potuto mostrarla solo i fatti. Come sempre. E l’occasione non tardò a presentarsi, prendendo il nome e il volto del capitano Charles Boycott. Suo malgrado.L’
Il grande cottage abbandonato che risalta un po’ inquietante laggiù, tra pascoli e pietre, appartenne un tempo proprio al capitano Boycott.
Egli era stato un ufficiale dell’esercito britannico, ma ora era l’agente di Lord Erne, uno dei più ricchi proprietari terrieri di tutta l’Irlanda.
Quando sul Mayo si abbattè la carestia, il capitano non fece altro che quello che facevano tanti altri landlord e i loro agenti: sfrattò dalle proprietà di Lord Erne i contadini che non riuscivano più a pagare il canone di affitto. Per sua disgrazia, le proprietà suddette si trovavano però nel Mayo, e Parnell aveva da poco tenuto il discorso che abbiamo citato.
Il 18 ottobre 1880 The Times dette risalto a una lettera dall’Irlanda, a firma di un certo capitano Boycott. Costui raccontava, presentandola come decisione inevitabile e comunque normalissima, di aver spedito l’ingiunzione di sfratto ai contadini che non pagavano più l’affitto, ma proseguiva, con tono sconcertato, dichiarando che gli agenti da lui incaricati di notificare l’atto erano stati minacciati e rispediti indietro. Ma la cosa singolare, anzi inaudita, era ancora un’altra, proseguiva il capitano: da quel momento, il fabbro e la lavandaia non volevano più lavorare per la sua famiglia, i negozianti si rifiutavano di servirlo quando scendeva in paese; gli impiegati delle poste non gli recapitavano la corrispondenza e addirittura nessuno gli rivolgeva la parola! Quando andava in chiesa, i banchi vicini venivano lasciati desolatamente vuoti; perfino i suoi domestici si erano licenziati…
Non è chiaro chi abbia usato per primo il neologismo “boicottare”, se sia stato The Times stesso o Le Figaro, ma quel che è sicuro è che il capitano Boycott avrebbe volentieri evitato di passare alla storia in tal modo! Divenuto scomodo, ormai, per il suo stesso padrone, lord Erne, che doveva ormai venire a patti con i dimostranti e aveva bisogno di uomini più malleabili, Boycott fu costretto a lasciare la zona e a ritirarsi a vita privata. Con i proventi della sua lauta “liquidazione” pensò a un ritiro dorato, benché remoto, e venne così nell’isola di Achill. L’aspetto paradossale della vicenda è che in quest’isola tante volte nel corso della storia avevano trovato asilo i ribelli irlandesi. Ora diveniva invece l’ultimo rifugio di un aguzzino, uno che i moderni ribelli aveva cercato di liquidarli con le maniere forti. Boycott sperava forse di restare sconosciuto ai rustici abitanti di queste lande e comprò una bella casa in riva al mare, proprio sulla spiaggia di Keem, nei pressi del punto estremo dell’isola, il capo Achill. Ma l’eco del suo caso era giunta persino in questo posto ai confini dell’Irlanda, se non del mondo: qualcuno appiccò il fuoco alla sua dimora! E così Boycott si trasferì in un luogo ancora più isolato, affittando il cottage su cui si è soffermata la nostra attenzione. Ma neanche così trovò pace, a quanto sembra, perché di lì a poco dovette lasciare anche questa casa e abbandonare l’Irlanda. Quali altri manifestazioni di ostilità abbia dovuto subire non è noto. Certo è che il cottage ha un aspetto piuttosto sinistro…
Cucina irlandese!
A Inis Oirr c’è un solo vero ristorante, il Fisherman’s cottage, ma fa un’ottima cucina, utilizzando prodotti locali freschi. Del resto, fa parte dell’associazione irlandese dello slow food! Potete trovare agnello con aromi, pollo ruspante, cassoulet di fagioli. Ma sarà il caso di andare sul pesce, anche per fare onore al nome del locale e al luogo! Potete cominciare con un antipastino: per esempio una scapece di sgombro, che pare una preparazione ligure più che irlandese (forse per questo la servono con una sorta di focaccia genovese?) Per il piatto forte, occorre vedere quale è il pescato del giorno; di solito si tratta dell’haddock, che è un ottimo pesce del nord-Atlantico, più saporito e pregiato del merluzzo. In ogni caso, trovate sempre nel menu la fish pie, una sorta di cremosa zuppa di pesce con granchio e merluzzo e accompagnata da purea di patate. E’ davvero eccellente. Un’altra possibilità sono i linguini, ossia le linguine al granchio, pescato nelle acque dell’isola. Non sperate di trovarle al dente, però: usano pasta di riso. Badate piuttosto alla freschezza del granchio.
A Keel, minuscolo villaggio della remota isola di Achill, nella desolata contea del Mayo, incredibile a dirsi, ci sono almeno tre ristoranti di pregio. Scelgo Calvey’s, ristorante sorto accanto alla rinomata e omonima macelleria. Una pausa nella sinfonia del pesce. L’agnello di Achill, che si nutre solo di erbe spontanee dell’isola, è celebratissimo. Ma io non ho cuore di mangiare agnelli. Un manzo o un maiale, perlomeno hanno vissuto abbastanza da essere stanchi di questa valle di lacrime. Ma un agnellino… lasciamo che faccia le sue dolenti esperienze! Il ristorante a prima vista ha un’aria chic che non mi attendevo (sai, i pregiudizi: ristorante annesso a una macelleria…). Addirittura una gentile donzella mi blocca e mi fa accomodare sul divanetto all’ingresso come si usa nei posti di classe. Però non mi fornisce del menu, né mi offre l’aperitivo. Per giunta il ristorante è quasi vuoto… Difatti, dopo quarantacinque secondi torna e mi accompagna al tavolo. E’ tutta una sceneggiata per darsi un tono. Ma li capisco: è dura gestire un ristorante chic nella sperduta isola di Achill, nella desolazione del Mayo. E per giunta con la gente che mormora: “Calvey’s chi? Ah, il ristorante che ha aperto il macellaio!”.
Escluso l’agnello, sarebbe da considerare il sontuoso special of the day: mezza aragosta, granchio, gamberi, ostriche…Ma si era detto che stasera si andava sulla carne: e allora, bistecca di Angus irlandese, con introduzione di salmone locale affumicato. Hanno bottigline da un quarto e mezze bottiglie. Tra le mezze l’alternativa è fra il Chianti e un Bordeaux. Bordeaux tutta la vita! E’ della tenuta del barone Rotschild, nientemeno! Classico uvaggio bordolese: cabernet sauvignon, cabernet franc, merlot. Perfetto. Il salmone è abbondante e squisito. La bistecca è imponente, alta tre dita, con una salsa di pepe (nero!), funghi e cipolle. Ora capisco perché Tex Willer e il suo pard Kit Carson si entusiasmano fino alla commozione quando nel villaggio dove sono capitati inseguendo il lestofante di turno trovano addirittura un ristorante francese! Mi sono sempre chiesto quale fosse la ragione di tale tripudio visto che comunque ordinano sempre una bistecca alta tre dita con una montagna di patatine fritte! Ma evidentemente la bistecca del ristorante francese di Tex e Carson è come questa di Calvey’s, con la salsina di cipolle, funghi e pepe nero. Le patatine fritte non sono una montagna, ma ci sono anche zucca arrostita e carote. E tutte insieme fanno una montagna. Purtroppo, al tavolo di fronte c’è una famigliola. Il ragazzo beve una birra Corona. Direttamente dalla bottiglia. La fine del mondo è vicina.
All’Harbour restaurant, a Donegal, è proprio un tripudio di sapori atlantici. Prendo come starter una zuppa di pesce che, come in tutto il nord Europa non è ciò che noi intendiamo per zuppa di pesce, ma è una crema, una vellutata molto saporita, di solito con dei pezzetti di pesce, dei molluschi e dei crostacei. Poi, la specialità del posto che è la casseruola di pesce con salmone, merluzzo, gamberi, cozze, chele di granchio, cucinata in un fumetto di aragosta e vino bianco. La sera successiva è andata ancora meglio in un rinomato ristorante di Mountcharles, paesino costiero a pochi chilometri da Donegal. Il ristorante si chiama Village Tavern e qui ciò che incuriosiva e intrigava nel menu era innanzitutto l’antipasto così battezzato: our signature seafood taste. La scelta è stata felicissima: in cinque ciotoline mi sono giunti, delle frittelle di merluzzo con salsa piccante/dolce (tipo cucina indonesiana, a mio avviso la migliore del mondo); chele di granchio intinte in un pesto di basilico, vellutata di pesce tipo quella della sera precedente, ma ovviamente in formato mignon; haddock con burro fuso; il classico cocktail di gamberi in salsa rosa. Come main course sono andato sulla black sole, sogliola nera, che però di nero non ha nulla, ma in compenso ha carni gustose e compatte. E ora se qualcuno sostiene che in Irlanda o più in generale all’estero si mangia proprio male e che “come si mangia in Italia..” beh è uno che non studia, che non incrocia le fonti, che non sa fare esegesi delle guide turistiche!
FINE PRIMA PARTE
Le foto sono di Angelo Imbriani.
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