Osteria resistente Tintori 2.0. L’economia relazionale di Pasquale Basile che confida nella provincia
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[di Nina Iadanza] Tintori 2.0, modern bistrot, è un’osteria ricavata in un antico edificio di un rione di Foglianise, nel beneventano. Qui, un tempo si coltivavano bachi da seta e si tingevano i panni. Pochi metri quadrati in pietra viva con una vasca, anch’essa in pietra, che forse serviva a contenere il miele che veniva lavorato e commercializzato in zona. Opifici un tempo assai attivi.
Colori caldi, musiche piacevoli di sottofondo, luci soffuse, mai confusione: un’atmosfera intima, accogliente. Pochi tavoli, scanni in legno con morbidi cuscini, un banco di mescita di fronte alla cucina da cui provengono gli odori del cuoco di casa, Pasquale Basile.
Pasquale è di poche parole e preferisce starsene tra i fornelli, anziché passare tra i tavoli a scambiare convenevoli. È Francesca Panarese, la sua compagna, l’addetta ai cerimoniali di sala. E’ lei che ti accoglie facendoti sentire come a casa tua, ti consiglia cosa mangiare dal menù stagionale, ti dice cosa c’è nel piatto del giorno e ti porta un buon bicchiere. E poi si occupa dei conti, della spesa e di tutto il resto. Se non fosse stato per lei, Tintori 2.0 non sarebbe esistito.
Sono una coppia nella vita e nel lavoro, con un progetto che li completa e li unisce ulteriormente: gestire un locale tutto loro puntando sulla buona e sana cucina di territorio che non ha da invidiare agli chef del panorama internazionale.
Hanno deciso di investire insieme in un’attività con passione e professionalità, scommettendo sulla provincia, ripartendo dal territorio, da quei luoghi marginali che, a differenza delle aree metropolitane, conservano ancora tante risorse identitarie da dare al mondo. Un modo per declinare nell’economia reale gli ideali di Pasquale Basile, attivista a Benevento del Centro sociale Depistaggio, prima, e del Lap Asilo 31, poi. Anche valorizzare i prodotti locali e la loro stagionalità è un metodo concreto per resistere a quell’omologazione che, ora, è pure causa della recessione, tramite multinazionali e mass media che portano via dalle comunità locali identità, coesione e redditi.
In pochi mesi, il Tintori 2.0 è diventato un’opportunità per tessere una rete di connessioni economiche sostenibili nella Valle vitulanese: con i produttori del luogo e, in particolare, con Giovanni Auriemma (az. Agricola Tasso del Taburno, Cautano), allevatore e animatore della Piana di Prata del Taburno, ma anche con Gaetano Palumbo, già fiduciario di Slow Food Taburno. L’attitudine del Tintori 2.0 a un’economia inclusiva e capace di fare rete si completa nell’aver aderito al circuito del SoldoCorto e del Distretto di EcoVicinanza di Benevento (distretto di economia solidale). Il SoldoCorto è una moneta locale sannita che promuove un’economia relazionale e una resistenza territoriale alla recessione.
Pasquale coniuga il suo impegno politico di militante di centro sociale per un mondo più giusto e meno discriminante con una cucina responsabile, come a dire che col cibo si può fare la rivoluzione dal basso!
Ha fatto una lunga gavetta durante la quale si è messo alla prova avvalendosi, tra l’altro degli insegnamenti di validi maestri nei riguardi dei quali ancora mantiene debiti di gratitudine, con l’umiltà che sempre lo contraddistingue.
Gli abbiamo rivolto alcune domande.
D – Come è nata la passione per la cucina in Pasquale Basile, attivista di centri sociali?
R – Lavoravo come lavapiatti in estate presso un ristorante a San Bartolomeo in Galdo (BN). In questo modo mi pagavo le vacanze e le prime rate all’università. Tra una montagna di piatti e l’altra, cominciai ad approcciarmi a questo mondo: rubavo con gli occhi, poi, quando tornavo a casa, mi mettevo alla prova. Cucinare mi veniva naturale, era un modo per rilassarmi e così ogni occasione era buona per farlo. Con gli amici, per qualche festa, in casa a Napoli, durante la frequenza dei corsi all’università. Poi il primo progetto: si chiamava Taverna del Sovversivo, anzi si chiama poiché, al Centro sociale Depistaggio di Benevento, l’hanno tenuta anche dopo la mia fuoriuscita (anche se adesso non è la stessa cosa e, soprattutto, non c’è lo stesso spirito): ogni mercoledì si cenava a prezzi accessibili, una sorta di mensa popolare. Da quel progetto, nato un po’ per scherzo e un po’ per passione, capii che forse qualcosa stava cambiando. Subito dopo lasciai l’università e scelsi quello che mi piaceva fare.
D – La cucina a cui ti ispiri?
Non mi piacciono le categorie e le classificazioni; quando mi fanno questa domanda, ho sempre un momento di sbandamento poiché non puoi racchiudere in una sola parola le emozioni, i sensi, i ragionamenti, i ricordi che si celano dietro ogni singola ricetta. Per me esiste la buona e la cattiva cucina, non conta utilizzare per forza caviale e aragoste per fare buona cucina: basta innanzi tutto avere rispetto per la materia prima, il territorio, le stagioni e i maestri che ci hanno preceduto. Per me è imprescindibile l’uso di un’ottima materia prima, avere rispetto per il territorio nel quale si lavora, riuscire a promuovere i prodotti che quel luogo offre, primo perché la freschezza è fuori di dubbio, secondo per incentivare quelli, che lavorando con responsabilità, configurano le piccole eccellenze della nostra terra. E’ chiaro che non ci si può limitare all’uso esclusivo di determinati prodotti, ma credo sia fondamentale avere i piedi piantati per “terra”.
D – Che percorso hai fatto per aprire un ristorante?
R – Tortuoso. Dopo le esperienze da lavapiatti, ho cominciato come commis, sempre a San Bartolomeo in Galdo, poi un giorno si presentò l’occasione di poter gestire una cucina e la presi al volo. Era il Mosaico Cafè di Benevento. Per tre anni, fu un’esperienza importante e significativa della mia vita durante la quale ho perso un amico, a dir poco un fratello, Mario, che era anche uno dei soci dell’attività. Dopo, frequentai a Roma, presso il Gambero Rosso, un master di professione cuoco. Mesi intensivi di studio teorico e pratico. Lì si è aperto un nuovo orizzonte: poter apprendere da grandi chef, le tecniche, la disciplina, ma soprattutto la bellezza di poter conoscere stili e scuole differenti, stare a contatto con un ambiente travolgente. La scuola ti dà tanto, la tecnica ma soprattutto la forma mentis. Come diceva uno degli insegnanti che mi ha trasmesso molto, lo chef Fabrizio Leggiero di Roma: sei cuoco quando passi dal come al perché, ovvero quando smetti di porti l’interrogativo di come “eseguire” una ricetta ma quando dinanzi ad un alimento conosci il “perché” di determinate tecniche e cotture. Il cuoco è colui che sa spiegarti perché sta compiendo una determinata azione.
All’indomani della scuola al Gambero, ho cominciato subito a lavorare come capo partita presso il Ribo di Guglionesi dello chef Bobo Vincenzi. Un’altra esperienza significativa. Bobo è un grande maestro, un carattere burbero e petulante di sicuro, ma un professionista, un conoscitore della materia e soprattutto della sua terra d’adozione, il Molise. Poteva scegliere grandi mete Bobo per le sue capacità, ha preferito investire e fare educazione gastronomica e resistenza in Molise, cosa di non poco conto.
E lo stesso amore per la terra che mi ha spinto a ritornare a Benevento. Una scelta dura questo è certo. Dopo aver rifiutato una chiamata al Villa Cimbrone di Ravello, per un breve periodo ho collaborato con la Pignata, allora operante in città. Dopo quell’esperienza ho gestito la cucina di un agriturismo con un progetto ambizioso di macelleria agricola, qui a Benevento, per otto mesi, poi ho lavorato in tutta la provincia come extra. Purtroppo e lo dico a mal in cuore, la nostra provincia e gli imprenditori della ristorazione non sono preparati ad un progetto serio di rilancio dell’enogastronomia. Il cuoco viene ancora visto come il garzone tutto fare, senza diritti ma con troppi doveri e, purtroppo per la nostra terra, molti giovani in gamba sono costretti ad andare via e lavorare altrove dove il lavoro del cuoco viene considerato alla pari degli altri.
Dopo aver girovagato la provincia beneventana e irpina, lanciai il primo progetto di chef a domicilio: Chef on The Road. Un’esperienza nella quale decise di affiancarmi la mia compagna Francesca: molto divertente perché conosci sempre persone nuove. In quest’esperienza ho conosciuto persone simpaticissime e preparate che oggi sono diventate clienti del Tintori 2.0, come Gabriele, Ivana, Sabina, Michele. La cosa che mi colpì molto fu quella che la provincia rispondeva di più a questa proposta. Si può dire che, in quei due anni, gran parte dei clienti erano delle località della provincia e solo in rari casi, provenienti da Benevento. Alla fine, fu Francesca che, stanca di girovagare, spinse l’idea di tentare l’apertura di un attività, nonostante il mio scetticismo.
D – Cosa ti ha spinto a scegliere un posto di provincia e a viverci?
R – L’esperienza precedente di Chef on the Road, in due anni ho avuto la possibilità di conoscere altre realtà della provincia di Benevento e le persone mi sembravano molto più ricettive a determinate proposte gastronomiche. Sembra strano ma nella provincia è sviluppata maggiormente una cultura enogastronomica, quindi ci sono persone che cercano il buono, non per forza la quantità a prezzi da regalo dove nella gran parte dei casi, è bene dirselo, la qualità viene sacrificata. Invece, a Benevento città, la ristorazione vive o sopravvive in base a due principi: quantità a prezzi possibilmente regalati oppure moda e tendenza. Quando qualcuno in città mi dice: hanno aperto un posto dove si cucina pesce fresco a venti euro, mi viene da ridere soprattutto dopo aver lavorato sulla costa adriatica in un ristorante come il Ribo dove, dopo tre giorni, il pesce non consumato veniva buttato.
In paese non è così. Lo sto toccando con mano. Gran parte dei miei clienti, oltre ad essere molto preparati e quindi un continuo sprone a migliorare la tua attività e il tuo lavoro, si comportano come i francesi. Non si va a mangiare in base alla moda o alla tendenza o per il fatto che un posto è frequentato dalla gente “giusta” cosa molto in voga in città, ma si sostengono le aziende del territorio che lavorano bene. I miei clienti vengono a mangiare da me e poi tornano, sostenendo altre attività della Valle vitulanese che lavorano sulla qualità. Le motivazioni che mi hanno spinto a vivere in paese invece sono stati da un lato motivi di carattere logistici e anche di diminuzione dello stress. Avere un ristorante vuol dire sacrificare tutta la tua vita e dedicarti anima e corpo ad un progetto quindi era necessario ridurre le distanze altrimenti era troppo faticoso.
Dall’altro, per lavorare in una terra devi anche cominciare a viverla. Mi piace molto Foglianise e, in generale, la Valle vitulanese. Questo territorio è fatto da persone umili e cordiali, abili artigiani che ancora resistono, ma soprattutto ci sono grandi eccellenze, peccato che le istituzioni locali ancora non lo comprendono appieno, ma è fatto di piccole aziende che lavorano molto bene. Ci sono prodotti fantastici che se valorizzati dalle istituzioni attraverso la creazione di filiere, potrebbero dare rilancio all’economia della valle. Oltre alla già nota salsiccia di Castelpoto, abbiamo le patate interrate del Taburno, il fagiolo tondino di Tocco Caudio, il pecorino del Taburno, i tartufi, ovviamente il vino con una miriade di aziende a Torrecuso e la cantina del Taburno di Foglianise, le carni e il formaggio Stravecchio del Taburno, riportato alla luce dalla condotta locale di Slow Food e dall’azienda e macelleria agricola il Tasso del Taburno. Qui in valle ci sono ancora aziende agricole totalmente biologiche ovvero che non fanno alcun tipo di trattamento agli ortaggi e alle verdure e che rispettano la stagionalità. Un esempio è l’azienda agricola Forgione di Foglianise dove è ancora possibile acquistare la verdura selvatica di campo. Foglianise e l’intera valle sono territori da valorizzare: ci vuole duro lavoro e soprattutto capacità di fare rete tra le aziende di produttori e ristoratori, in questo campo la vicina Irpinia può farci scuola.
D – Come è la risposta dei clienti e cosa apprezzano?
R – L’attività va molto bene, considerando la pessima fase economica generale che stiamo attraversando. Ci stiamo diffondendo lentamente ma fidelizzando tutto i clienti. Abbiamo una clientela fissa della Valle vitulanese e negli ultimi tempi stiamo prendendo molti clienti da Benevento, cosa che mi inorgoglisce profondamente perché vuol dire che in città soprattutto tra i più giovani la mentalità sta cambiando. Nell’accezione del cittadino di Benevento, Foglianise non è tra le traiettorie abituali delle uscite del fine settimana, come San Giorgio, Pietrelcina o Montesarchio. Nell’accezione comune, è un posto lontano e in montagna, ma in realtà dista solo 12 chilometri e con la fondovalle in 13 minuti sei a Foglianise. Cosa apprezzano di più? Dovrebbero dirlo loro ma credo la dedizione e la passione che mettiamo nel fare il nostro lavoro che è poi quello che ci piace fare.
D – Se potessi tornare indietro?
R - Sono talmente testardo e ostinato nelle mie scelte che rifarei quello ho fatto. Per ora non mi pento di nulla sarei un cretino a farlo. Di tutto quello che ho fatto ringrazio i miei genitori che mi hanno dato tanto.
D – Con chi condividi la tua attività?
R - Con Francesca che è la mia compagna. Oggi i cuochi sono alla ribalta e hanno molta notorietà: in realtà nella gestione di un ristorante la cucina occupa solo una percentuale. Se non ci fosse Francesca non ci sarebbe il Tintori 2.0. Primo perché ero scettico, per essere ristoratore o commerciante devi essere simpatico a tutti e, vuoi o non vuoi, la mia personalità, per tutta una serie di motivi, non suscita molte simpatie soprattutto in determinati ambienti, ma Francesca è l’unica che riesce a spronarmi e quindi…
Poi c’è un altro aspetto, lei oltre a gestire e amministrare l’attività, guida la sala e il contatto con i clienti le pubbliche relazioni cosa nella quale sono negato. A prima vista non suscito simpatia e non ho molta pazienza, diciamo che non ho un bellissimo carattere, per questo dico che senza Francesca non sarebbe immaginabile una simile attività. Lei ha la capacità di metterti a tuo agio e farti sentire in un clima familiare io… è meglio se sto in cucina. Il termine esatto è che ci compensiamo perfettamente.
D – Il rapporto tra il tuo lavoro e la tua vita da attivista?
R - Per alcuni, un problema, per me, sono due aspetti fondamentali della mia vita. Certo, dal punto di vista commerciale è un problema. Molti hanno ostacolato il mio lavoro a causa del mio attivismo. E’ una ripicca. Forse, non si riesce ad accettare che un attivista dei centri sociali, un rompiscatole per antonomasia, faccia bene il suo lavoro e, allora, si fa di tutto per farlo andare via. Se invece resto nella mia terra, è anche per questo motivo.
Dimostrare che è possibile fare quello che ti piace fare, nella tua terra dove ci sono i tuoi affetti indipendentemente dal fatto che lo abbia deciso ”qualcuno”. Per il resto, questi due aspetti, che molti considerano in antitesi, riesco a conciliarli abbastanza bene. L’una nasce da una dimensione soggettiva e individuale, l’altra collettiva.
L’una è quindi la manifestazione esteriore di una passione, di un’abilità e l’altra, quella collettiva, è vivere un’esistenza che si dà agli altri, della condivisione con gli altri. Come ha detto il mio amico gour_man Antonio Medici, in una recente recensione, la mia è una cucina di lotta senza la quale, aggiungo io, sarei come morto.
www.tintoridue.wordpress.com - Foglianise – Vico G. Vetrone, 2 - 0824 870 429
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