Alfonso Marino, quando contaminare è ‘resistere’
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[di Tullia Bartolini] Parlare con Alfonso Marino non è mai banale. Lo conosco da tanto tempo, anche se ci siamo visti poche volte, a causa di distanze (chilometriche) che sono state sempre compensate da attenzione e sostegno. Lui è un poeta, un pittore, un artista a tutto tondo, molto attivo a Sabaudia, dove vive da anni.
Ma è napoletano di origine, e si sente: per il calore, la partecipazione, la simpatia che emanano da lui.
E’ un artista ‘resistente’: crede nel valore del gesto poetico, nell’iniziativa culturale che parte dal basso; da anni fa circolare in rete opere di autori non sempre noti al grande pubblico. In modo disinteressato e con grande generosità.
Gli ho rivolto alcune domande, incuriosita dal suo sguardo poetico sul mondo.
Nasci napoletano. In che modo la “napoletanità” ha condizionato il tuo modo di essere?
Non mi piace la parola ‘napoletanità’. Diverse volte mi sono chiesto quale significato possa avere e, ancora oggi, non riesco a darmi una risposta. Chiaramente, il luogo dove si nasce può influenzare una certa visione della vita. Nascere a Napoli, che è connotata, come sappiamo, da una lunga storia e da multiformi espressioni artistiche, culturali e sociali, non è la stessa cosa che nascere a Canicattì. Diciamo che quindi sono impregnato e fieramente sento di fare parte di questa cultura, ma sono, con una parola troppo abusata, soprattutto un “cittadino del mondo”, nel senso che sono aperto ai territori che mi stanno a cuore: l’arte visiva, la musica, la poesia. Ascoltavo mia madre che cantava, durante il lavoro di sarta, le canzoni della tradizione. Poi, crescendo, mi sono interessato ad altre forme musicali. Vorrei spiegare bene questo passaggio. Sono sempre stato un “inclusivo”, nel senso che un interesse artistico, musicale o letterario, secondo me, non ne esclude un altro (anche se essi possono sembrare lontani). I vari linguaggi si estrinsecano, in me, anche durante lo stesso periodo temporale. Intorno ai venticinque anni ho cominciato ad interessarmi allo studio del napoletano; la mia produzione in tal senso si compone di circa trenta poesie. Ho anche tradotto alcuni versi di Emily Dickinson e, insieme a Giovanni Paesano, ho tradotto in versi endecasillabi ‘Il Piccolo Principe’.
Come approdi alla poesia?
L’approdo prevede che vi sia un viaggio più o meno lungo. Nel mio caso si è trattato di una folgorazione. Durante il periodo scolastico ho “subito” la poesia: proprio non riusciva a piacermi. Dopo, non ci ho più pensato. Nel 1985, a seguito di un episodio che ha messo in discussione alcuni punti fermi della mia vita, ho sentito aprirsi dentro di me qualcosa, come una breccia in un muro. Ho scritto dapprima in forma caotica e ansiogena, poi, col tempo, ho lasciato sempre più spazio alla riflessione e all’arricchimento attraverso la lettura.
Chi sono i tuoi autori preferiti?
Credo che, nella vita, bisogna essere sempre innamorati o pronti a farlo. Io sono un tipo che si innamora continuamente. Di un motivo musicale, di un’immagine, di un gesto, di una parola, di un ritmo, del canto che pervade una poesia. E questo può venire dai versi di un grande poeta, ma pure da quelli dello sconosciuto che incontro per strada. Un nome su tutti, guardando alla sua produzione globale, posso però farlo, come eccezione a quanto appena detto. Ed è quello di Emily Dickinson: per la luminosita e, nel contempo, per l’oscurità dei suoi versi.
In che modo l’irrequietezza fonda il gesto artistico?
Credo che una delle doti che debba avere un artista sia quella della curiosità: avere mente, occhi e orecchie sempre spalancati per cogliere i segnali che possano provenire da qualunque parte egli punti i suoi organi di senso. Questa attitudine, o dono, si accompagna a quella che tu chiami irrequietezza. Irrequietezza vuol dire non accontentarsi di quello che hai prodotto, non adagiarsi su quello che hai fatto ieri, mettere in forse i risultati raggiunti, tentare di scardinare le proprie sicurezze. Mi capita spesso, per fortuna, che, terminato un lavoro, subito dopo mi sorprenda ad interrogarmi: “Mi piace quello che ho fatto, sì, ma come posso andare oltre, far diventare, questo, un nuovo punto di partenza?” .
Poesia visiva: cos’è e perché l’hai scelta come ulteriore modo di esprimerti?
All’inizio degli anni ’90, con il proliferare del virus dell’HIV, si assistette a un accanimento mediatico (sotto l’impulso della parte più retriva della società, influenzata dal potere cattolico), teso a condizionare i costumi sessuali e sociali della società. Tale bombardamento produsse in me uno stato di fastidio tremendo. Utilizzando una macchina per scrivere elettronica cominciai a reiterare l’acronimo AIDS. Nacque così una serie di lavori che riproducono croci, svastiche, oggetti vari … fino a formare dei muri o dar vita a giochi linguistici concettuali. Per capire quale fosse la strada che stavo percorrendo, li mostrai a un poeta amico il quale, appena li vide, disse: “Questa è poesia visiva”. Dopo di che iniziai a fare un lavoro utilizzando le parole, mettendole in contatto armonicamente o in opposizione con altre parole o concetti. La stessa cosa ho fatto con le immagini. Un amico mi presentò a Stelio Maria Martini al quale, mentre guardava i miei lavori, chiesi: “Maestro, mi spiega cos’è la poesia visiva”. Stelio, con la sua solita vena ironica e dissacratoria, mi rispse: “Ma tu la fai. Che cosa vuoi sapere?”. Da allora non mi sono più chiesto cosa fosse, né ho più rivolto ad altri la domanda. Trovo, comunque, che l’utilizzo di un linguaggio che scaturisca dal connubio di linguaggi preesistenti (non solo la scrittura e l’immagine, ma anche il suono, gli odori) aumenti in maniera esponenziale la possibilità di dire di più , e meglio, rispetto ai linguaggi presi separatamente.