La costruzione del mito delle streghe di Benevento
[di Franco Bove] Sul Corriere della Sera, Paolo Foschini ha osservato che la diffusione mediatica del sapere tende oggi a imporre schemi fissi, sempre identici. Rapida nel cogliere l’irrompere di eventi e di problemi nuovi, non incide sulle capacità critiche dei fruitori e finisce col riproporre vecchi stereotipi opportunamente manipolati. Le considerazioni di Foschini ben si prestano a descrivere il riproporsi di quel gusto per l’orrido e per il gotico letterario che pareva finito nell’Ottocento.
Il fenomeno riguarda anche Benevento. Neppure i mutamenti sostanziali dell’assetto sociale intervenuti negli ultimi sessanta anni, con le relative trasformazioni economiche e con i risultati del lavoro intellettuale di diversi studiosi, anche stranieri, hanno intaccato quel coacervo di luoghi comuni e di false credenze che connotavano la sua presunta identità consegnataci, più che altro, dalla retorica forense del XIX secolo. Il più fasullo, quello che associa Benevento alla magia e alle streghe, è un mito patetico, denotativo di povertà e di arretratezza che ci si ostina a riproporre acriticamente, senza il conforto di adeguati dati storici. Inventato quasi di sana pianta nel XVII secolo dal protomedico beneventano Pietro Piperno, sostenitore della teoria degli untori, mediante la quale si identificavano come diffusori della peste i già perseguitati e dispersi ebrei, fu ripreso agli inizi del Novecento dall’antropologo Abele De Blasio che, tuttavia, non lo ritenne meritevole di approfondimento.
Il successo di questa mitografia si deve principalmente all’industria dolciaria Alberti che la utilizzò per ricavarne la denominazione di un suo liquore, ancora oggi diffusamente apprezzato in tutta l’Italia e anche oltre. E’ stata proprio l’etichetta della bottiglia a propagare l’iconografia oggi consolidata, riproducendo in un medaglione una vecchia donna con scopa a tracolla e, al di sotto, un gruppo di donne scarmigliate che ballano intorno ad un albero, il noce delle credenze popolari. Questa immagine sarebbe associabile, secondo la vulgata risalente al Piperno, ad una vicenda alto medioevale, vale a dire al taglio da parte di san Barbato dell’albero sacro, intorno a cui i guerrieri longobardi usavano effettuare un rito prettamente militare, una giostra equestre che prendeva di mira la pelle di un animale appesa ai rami per strapparla a piccoli pezzi e divorarla, nel probabile intento di richiamare simbolicamente l’impiccagione iniziatica del dio Odhinn. L’abbattimento dell’albero, che nel testo della Vita Barbati non viene mai qualificato come noce, sancisce la cristianizzazione della Longobardia del Sud e la fine delle tradizioni di origine scandinava, secondo le quali l’albero sacro era, comunque, il frassino.
L’associazione della pratica rituale nordica con il sabba risulta, quindi, del tutto arbitraria e, in ogni caso, priva di risconti documentari. L’argomento è stato oggetto di uno specifico studio di Marina Montesano che ha escluso qualsiasi ragionevole collegamento della presunta tregenda stregonesca con l’episodio riportato nell’agiografia di San Barbato, ricordando, tra l’altro, che le prime notizie relative alle streghe risalgono al XV secolo e rientrano in un più generale fenomeno europeo definito da Carlo Ginziburg “l’emergere di una sotterranea unità mitologica euroasiatica” alle soglie della modernità. Peraltro il racconto dell’eliminazione della sacra arbor rientra in un topos piuttosto comune.
Le agiografie dei santi confessori in Europa abbondano di episodi del genere e, come fa osservare mons. Iadanza, la narrazione beneventana essendo datata tra la fine del IX e gli inizi del X secolo, più di tre secoli dopo il presunto avvenimento, quando le radici pagane dei Longobardi avrebbero dovuto essere del tutto dimenticate, non sembra essere del tutto autentica. Dunque la vicenda potrebbe essere soltanto un’invenzione letteraria con finalità legate al momento politico particolare. Anche sotto il profilo coreografico la versione beneventana del volteggio intorno all’albero non possiede una sua spiccata singolarità. Sembra ricalcare, in particolare, la storia del noce che cresceva a Roma presso il sepolcro di Nerone, ai piedi del Pincio. Papa Pasquale II (1099-1118), avendo saputo che intorno all’albero, secondo l’opinione popolare, erano solite aggirarsi presenze demoniache, lo fece abbattere, ordinando anche la distruzione della tomba dell’imperatore, di cui si temevano gli influssi malefici.
Il sacro albero longobardo non si trovava, intanto, né in un sito di importanza storica, né presso il fiume Sabato, come vuole la versione folklorica. Stava in una zona periferica in contrada San Cumano, come ha dimostrato Carmelo Lepore, dove fu elevata una piccola cappella in ricordo dello storico taglio. Perché, dunque, questo mito dalle incerte e poco originali radici ha attecchito così profondamente in Benevento? Di recente Elio Galasso e Paolo Portone hanno provato a connetterlo al culto di Iside, presente in Benevento in età classica, che nel suo corredo di simboli aveva anche un serpente attorcigliato assimilabile alla vipera adorata dai Longobardi. Si tratta, però, di un’interpretazione che utilizza argomenti di antropologia culturale e non sembra tener conto delle acquisizioni della ricerca storica più aggiornata, perché prende per buone ancora le tesi settecentesche di Pompeo Sarnelli.
Ma al di là di questi chiarimenti di natura storica, perché c’è chi ancora insiste nel comminarci il tema delle streghe, allestendo mostre, immaginando improbabili musei delle arti magiche e componendo testi teatrali in cui si mescola con risultati poco originali un femminismo d’antan con l’anticlericalismo del vecchio Michelet?
Da un lato questi ostinati indagatori dell’immaginario preilluminista, sembrano cercare nel passato certezze, per quanto dolorose, che non riescono a trovare nel presente, forse per la difficoltà di osservare la modernità con sguardo disincantato. Pochi si avventurano nel terreno scabroso degli albori dell’età moderna, laddove si sviluppano drammatici conflitti del tutto nuovi che incidono, in particolare, sulla vita delle donne. Del resto nulla più della falsa narrazione storica offre l’illusione di riuscire ad afferrare almeno un brandello di verità, allontanandolo il più possibile dalla contemporaneità. Di qui la tendenza a trattare le vicende tristi dell’inquisizione con i modi della fiction, ad elevare a personaggi emblematici figure da cronaca nera, a mescolare disinvoltamente argomenti di antropologia e di mitologia con questioni di linguistica storica, di filosofia e di scienze applicate, a vedere tuttora nel medioevo l’origine di tutti i mali e a dipingere la Chiesa come un istituzione mostruosa nemica di ogni libertà.
Dall’altro lato, tuttavia, c’è un aspetto più corrivo. C’è il desiderio di seguire la moda delle cosiddette “tradizioni” che spinge alcuni ad inventare feuilleton alla Carolina Invernizzi e ad esibire ancora una volta la modesta bigiotteria di famiglia.
(Ponte Leproso da foto stilizzata di Ernesto Di Gennaro)
La questione della stregoneria e della caccia alle streghe che si sviluppò soprattutto tra il XV e inizi XVII secolo è un fenomeno che alla base della costituzione degli stati moderni così come noi li conosciamo. L’aspetto folkoristico di cui si ammanta anche la leggenda beneventana ne riesce a cogliere soltanto alcuni aspetti. Ricordo, per coloro che non ne fossero a conoscenza, che l’ultima condanna di stregoneria fu pronunciata a Benevento contro due individui di religione ebraica ( citato in Italia Judaica ) di cui all’Archivio di Stato di Benevento esiste traccia in un protocollo notarile. La questione del fiume Sabato o del Sabba si può ricollegare proprio alla persecuzione di cui venivano fatti oggetto gli ebrei, accusati ingiustamente di stregoneria. E’ da ricordare che la caccia alle streghe fu più esasperata e virulenta in ambito protestante che in ambito cattolico, questo proprio perché gli stati protestanti sono stati all’origene degli stati moderni.
Mario Fragnito
Asciutto, sferzante. Un esempio di come si possa decostruire un mito utilizzando fonti sicuramente attendibili, nel flusso di un discorso lucido e coerente. Uno stimolo alla riflessione per non riproporre vecchi stereotipi opportunamente manipolati.
Nulla quaestio sulle origini di certe pratiche male interpretate, sui fatti storici riportati e l’invenzione del protomedico, le elaborazioni fantasiose da parte di molti.
Giostra di uomini a cavallo e sabba, noce, o meglio frassino, e santi confessori anacronisticamente messi insieme. Culto antico di Iside reinterpretato in chiave antropologica e prosaica, abile, manovra pubblicitaria della vecchia con la scopa associata al noto liquore.
Certo la leggenda c’è e non si può ignorarla. Da qualche parte ha attecchito a dispetto della povertà culturale e della miseria umana e materiale. Una ragione che vada al di là di tutto, fino a negare le evidenze, ci dovrà pur essere.
Nelle nostre campagne, ad esempio, ancora oggi si raccontano storie di janare che intrecciano le code ai cavalli o si trattengono a contare i rametti delle scope di saggina sugli usci delle case. O di levatrici vendicative.
Esiste ormai nell’immaginario non solo popolare ed è rivendicata da molti.
Il perdurare della leggenda potrebbe essere un modo per rendere omaggio alla memoria di tante donne processate, condannate perché ritenute streghe?
Per non dimenticare?
Nina Iadanza
un bell’articolo. mi piace come è scritto ma vorrei fare una piccola precisazione. I Longobardi, a quanto sembra, erano d’origine scandinava e solo raramente in Scandinavia e sopratutto in Svezia si parla di sabbat. Anzi questa pratica solo a partire dal 1300 probabilmente per influenza tedesca. Da quello che ne capisco io una credenza stregonesca o quanto meno di riti di fertilità atavica che avrebbe riguardato tutte le donne. Comunque per me resta qualcosa di molto interessante come è stato venduto ed è un vero peccato che il cinema non l’abbia considerata.