“Senegal. Diario minimo di un improbabile viaggiatore” di Giovanni Rossi per Finisterre
Milano, Roma, Parigi. Ignari sorridenti viaggiatori. Ci piace l’idea che l’estate non sia finita. Abbiamo fatto finta di tornare al lavoro e poi, colpo da manuale, siamo fuggiti. Il Senegal merita uno scalo. Parigi è fredda; l’aeroporto, un automa di cemento grigio con tramezzini che costano 10 euro. I francesi non parlano, annuiscono, fanno smorfie. L’aria è frizzante come un sorso di Perrier. L’areoporto è fermo, un plumbeo trampolino verso il nuovo mondo. Ogni aereo è un viaggio chiuso in due ansie che si chiamano decollo ed atterraggio. Nel mezzo, ci sono basse temperature, sedili stretti e senza fughe, copertine, cuscini, vassoi con scatolini di vettovaglie tiepide. Scenari consueti, riti consumati all’interno di un ventre danzante chiamato ballo delle turbolenze.
Dakar. Siamo uomini compattati. Gente in fuga. Sognatori. Persone che amano il caldo ma non troppo. L’umidità si chiama Africa. E’ un caldo che non si ama ma sparge la sua acqua trasudata dalla stagione delle piogge. La terra emette i suoi lamenti, stira le sue membra ed asciuga la sabbia dalle fatiche del giorno. E’ notte. Questo arrivo è un pugno nello stomaco. Odore di terra reietta, di notte ferma, di cappa. La gente calda come il clima, ci chiama, ci stordisce, ci attira, ci risucchia dentro un corridoio di pelle nera. Si agitano nell’aria mille mani, gente che mostra tesserini, carte, o semplicemente grida. Forse tassisti autorizzati dal comitato del turismo ufficiale che offrono passaggi. Forse. Molti sono venditori ambulanti. Forse. Intorno auto rabberciate, carretti, asini, pulman ridotti in ammassi scoloriti. Non c’è tempo. Nessun pericolo, ma la stanchezza e l’ansia pesano più della cappa. Guadagniamo il nostro pulman di ricchi, improbabili minimi viaggiatori.
Saly. Costa azzurra africana. Incompleta, grottesca definizione sospesa a mezz’aria. Ognuno ha la sua costa azzurra, ma le nostre menti hanno un metro di misura schizzinoso. Siamo europei; italiani che “sappiamo tutto noi”, guasconi dal cuore molle. Troppo molle per essere europei colonizzatori. Siamo solo gente abituata bene. Siamo in un resort a cinque stelle che brillano un pò meno delle nostre. Abbiamo occhi un pò meno spaesati rispetto a tanta misera periferia. Beauty center, relax, piscina, palme, stanze con interni in bambù. Qui siamo viaggiatori meno improbabili, anche se il caldo ci tiene stretta la mano.
Villaggio 80 km a sud di Dakar. Si parte ed il pugno sembra indugiare nello stomaco. Nessuna strada ma terra, arbusti, rottami, bassi calcinacci di case, informi spelonche, lamiere, carte, bottiglie vuote, lattine, pneumatici, tranci di corde, taniche, barili. Miseri scarti. I Senegalesi sono la cornice lisa di queste congerie. Gentili, non pericolosi, con sorrisi spesso chiusi. Questuanti coriacei. Operosi ma più spesso sciatti, proni o supini, sdraiati sotto bassi arbusti o su talami precari fatti di quattro assi scalcinati. I bambini poverissimi, sorridenti elfi. Con la pelle nera, diavoletti ignari che manifestano ogni gioia, quella che i genitori induriti dalla miseria non conoscono più. Le donne sono le ninfee che affiorano dalla palude: con portamento regale, quasi il contrappasso di tanta brutta cera. Vesti di colori, cornici attillate e variopinte, mai scarmigliate, ma i capi ornati alla perfezione; belle, composte, magre. Immagini affastellate, impastate di sabbia, scorte dai cingoli di questo carro armato, mentre procediamo verso un villaggio sperduto a sud di Saly. Affiorano lentamente i sintomi di quel malessere che serpeggia tra noi passeggeri; il fascino della conoscenza del diverso, del simile meno fortunato. Nessun piacevole intermezzo, nessuna battuta, nessuna goliardia riesce ad attenuare quest’uggia che ci ha invaso l’anima. Solleviamo sabbia ed umido, mentre ci rinfreschiamo i volti con pezzoline bagnate. Il viaggio è più lungo del previsto. L’arrivo al villaggio è un sollievo. Tutti in festa per noi. Siamo ignari benefattori di un villaggio povero. Siamo in una scuola povera di bambini neri. Un tassello nel mosaico del futuro. Un mosaico complesso e certosino che si chiama Senegal. Siamo stanchi. E la stanchezza per un viaggiatore che si sente molto improbabile, può superare la commozione. Ma i bambini neri che stavano lì vestiti con gli abiti poveri della festa, sono ricordi incisi a fuoco, e la commozione si ciba di tutto, anche degli scarti.
La prima oasi verso Joal. Le oasi sono immagini patinate. Figlie di pellicole, lette e disegnate nei fumetti, rese grottesche nei cartoni animati. Le oasi sono sollievo e speranza. La nostra è un’oasi per viaggiatori improbabili, per chi è abituato ad essere cullato dalle suppellettili. La nostra oasi ha il volto di due giovani donne senegalesi sulle cui fronti scendono grappoli di ricci fitti, di tanto in tanto inanellati di perline; la loro pelle morbida è disegnata di terra scura. Le solite pezzoline bagnate, il succo di karkathe e di menta, il cocco, le arachidi, gli anacardi, le olive. Il nostro balsamo inaspettato. La soddisfazione dei nostri bisogni minimi. Vedo volti sorridenti come bimbi al gioco. Vedo uomini e donne pieni di orpelli, abbandonarsi solo a ciò che serve. Un bicchiere d’acqua nel deserto. Il bene più grande in questo inutile letto pieno di gioielli.
Il villaggio di conchiglie: Joal-Fadiout. Il cibo è riso, bocconi di pesce, carne in salse che ricordano la sabbia, le spezie, le mani brune delle donne; si beve birra Flag, o la birra del cammello, vino che ha il sapore del caldo, caffè diluito nel tempo. Il ponte di legno è il nostro treno. Svettiamo su una distesa di mare prosciugato; su questa sabbia compatta e fresca. Ci sono grida di bambini neri. Due squadre. I piccoli alla sinistra ed i più grandi a destra. In mezzo il nostro ponte. Guadiamo due campi di sabbia. Da noi ci sarebbe l’erba che ha il profumo delle stelle, qui c’è solo un nugulo impazzito di gambe nere sopra la terra. Il cielo è gonfio di ogni acqua, pronta ad accoglierci all’ingresso del villaggio. Le strade bianche sono i resti delle conchiglie. Gusci trasudati dalla fame. Scarti opalescenti dei pescatori, fenicotteri chini sulla battigia a rastrellare ceste di ogni sabbia; i molluschi della provvidenza. Resti che calpestiamo su ogni stradina tra le capanne battute dalla pioggia e questi abitatori. Gente coriacea che ci segue ovunque come in processione; chi vende, chi sorride, chi dorme e chi segue rassegnato il solito teatro.
Il mercato del pesce. Ci sono barche. Colorate dal tramonto e dalla fame. Mille vesti di donne, mercanti e pescatori. Aggrappati e festanti grappoli a queste agili barche; legni consumati dall’oceano eterno. Tutto si muove tra zaffate di pesce vivo o già morto. Agognante fauna divorata da mani ed occhi. Pane quotidiano e festa. Siamo incursori vestiti bene. Le stecche di un coro chiamato miseria. Derisi, impacciati, tallonati, smarriti. Affondiamo le scarpe sulla battigia dove l’acqua salmastra offre risacca nera, una carezza calda e crudele di mille grida. Tutto è possibile in un mercato del pesce. L’orizzonte ha il nome incerto dell’attesa delle barche. La cena imbandita dal mare giunto a sera.
Il lago Rosa. Nord di Dakar. L’acqua non è rosa ma annegata nelle sabbie. Ha il colore del deserto; delle dune; del posto lontano. E’ un lago caldo che nasconde misteri. In questa mattina fatta di ieri, dinanzi a noi tutto è rosa. L’eco del tamburo. L’illusione che ci sia musica, nient’altro se non battiti di una vita fatta di sabbia e acqua. Montagne di sale attorno. Scalate. Gobbe di sopravvivenza. La musica prosegue e sono farfalle che percuotono le proprie ali fatte di legno. Corriamo nel sale e nella sabbia e nessuno si gira, siamo statue che nessuno potrà mai tramutare in montagne. Corriamo innanzi scorgendo le onde dell’oceano che cinge. Il lago prigioniero del mare. Una sosta ed un bagno. Riprende la nostra corsa a bordo di mezzi scalcinati.
Villaggio di Kunun. Prima della festa al villaggio, mangiamo ridendo. I vestiti locali sono la nostra pelle finta. Il villaggio è pieno di bambini, mamme, padri. Uomini festanti. Ballerini, saltimbanchi, funamboli al ritmo selvaggio della savana. Il cerchio di gente fatta di cenci d’autore, pennellate, mille bolle asciugate al sole, sorrisi, scherni, fughe d’occhi, baruffe crepitanti di voci, strappi, incitamenti, capriole. Nella festa del villaggio siamo ancora troppo improbabili. Più omaggiati che prodighi donatori di penne e caramelle.
Dakar. Isola di Goré. Viaggiamo verso Dakar: ultima corsa. Città di vestigia coloniali immerse nell’immondizia. Ponti di cemento nero. Strade rottamate. Città progredita di miseria piena di progetti. L’isola che non c’è ci aspetta. Ci sono bimbi neri che annegano per un soldo. Ci siamo noi a guatare nell’imagine degli schiavi. Da qui partivano. Forse. Gente che giungeva morta. Sicuro. Come certo è il nostro ritorno. Da questi sentieri caldi di sabbia calpestata e trasudante di echi incatenati, si levano le ultime nostre piccate risposte ai questuanti. E’ tardi. Battello, aereo, automobile, dove siete? Casa amara casa.
Casa. Ecco, siamo svegli. Ci hanno svegliato gli echi di un viaggio. La giacca che il sole ci tirava ora è stazzonata. Siamo a casa. Siamo scesi sulla sabbia da una lingua di cemento. Siamo atterati quasi scollinando da una grande duna. Dallo scanno rimarchiamo tutti gli scampoli di quella battigia nera. Sguardi condivisi. Specchi smarriti. La terra che è stata il nostro primo viaggio, senza alcun giaciglio uguale al nostro nido consueto. La prima volta che abbiamo dormito fuori casa. I viaggiatori improbabili di ieri, oggi danzatori di ricordi.
Giovanni Rossi
A mia madre (lettrice splendida)
Senegal, 6-11 ottobre 2009 – “Diario minimo di un improbabile viaggiatore” di Giovanni Rossi per Finisterre